La questione del Nagorno-Karabakh risale al
1923, anno in cui, nel quadro della sistemazione dell’immenso edificio
statuale sovietico, la regione – abitata da circa 180.000 persone, in prevalenza
(80%) cristiani di lingua ed etnia armena – venne incorporata nella vicina repubblica socialista dell’Azerbaigian.
Nel periodo sovietico la
questione del Nagorno- Karabakh
rimase lungamente sopita, fino quando i primi segnali di cedimento dei regimi
comunisti in Russia e in Europa orientale non incoraggiarono il riemergere
delle istanze identitarie
anche nel Nagorno-Karabakh. Il 17 marzo 1988 il Plenum del Comitato centrale del partito
comunista del Nagorno Karabakh,
dopo tre giorni di manifestazioni nel capoluogo Stepanakert, approvava a grande
maggioranza una risoluzione per chiedere il ritorno del Nagorno-Karabakh
all’Armenia: in tal modo il Partito comunista del Nagorno-Karabakh
si allineava a quanto già richiesto dal Soviet
regionale il 20 febbraio - ma il Comitato centrale del Partito comunista
sovietico aveva definito illegale la risoluzione di febbraio. Va infatti tenuto
presente che l’Azerbaigian riscuoteva a Mosca un certo favore, essendo noto
l’atteggiamento sempre allineato di questa Repubblica alle direttive del potere
centrale.
In seguito, mentre il Nagorno-Karabakh conosceva dal 23 maggio 1988 un inedito
sciopero generale ad oltranza, il Praesidium del Soviet supremo ribadiva l’intangibilità
dell’assetto territoriale dell’URSS, respingendo in un’apposita seduta (18
luglio) le richieste di autodeterminazione del Nagorno
Karabakh, sostenute dall’Armenia: nel contempo veniva
assicurata l’adozione di misure volte a favorire una reale autonomia e uno
sviluppo economico e culturale del Nagorno-Karabakh.
Dopo un periodo di calma,
dall’inizio di settembre riprendevano le manifestazioni nel Nagorno
Karabakh, alle quali l’Armenia esprimeva completa
solidarietà, e che provocavano anche attacchi di bande azere, con numerose
vittime. Il 1° dicembre 1988 gli armeni del Nagorno-Karabakh
lanciavano un appello alle Nazioni Unite e all’intera Comunità internazionale,
dicendosi vittime di atrocità perpetrate dagli azeri, nell’inerzia del potere
centrale sovietico.
Il 1989 si apriva con la
decisione, in gennaio, con la quale il Praesidium del supremo riconosceva una speciale autonomia
alla regione del Nagorno Karabakh,
senza peraltro nulla concedere sul piano del distacco dall’Azerbaigian. Dopo
alcuni mesi di tensione contenuta nel Nagorno-Karabakh,
il 27 maggio la regione si vedeva privata
di rappresentanza nel Soviet supremo
di Mosca, poiché i propri delegati, inclusi ovviamente nel gruppo
dell’Azerbaigian, si vedevano tutti respinti.
In settembre, mentre le violenze
raggiungevano anche i dintorni della capitale azera Baku, il Nagorno Karabakh veniva a
trovarsi completamente isolato a causa del blocco ferroviario attuato dagli
azeri dalla fine di agosto, e in preda a una nuova ondata di proteste per lo
scioglimento del Comitato ad hoc per
l’amministrazione del Nagorno-Karabakh, istituito nel
1988 e revocato da una controversa deliberazione del Soviet supremo.
Dopo un inutile ultimatum di Gorbacev
(25 settembre) alle due Repubbliche per una immediata soluzione della
questione, il 28 novembre il Soviet supremo confermava nella sostanza la
propria precedente decisione, mostrando chiaramente di voler soddisfare le sole
richieste azere. Per tutta risposta, il Soviet regionale dell’Armenia votava il
1° dicembre per il ritorno del Nagorno Karabakh nel seno dell’Armenia.
Nel gennaio 1990 si rinfocolava
la protesta in Azerbaigian, in conseguenza di alcune decisioni – peraltro
invalidate dalle Autorità centrali sovietiche – dell’Armenia miranti a
includere il bilancio del Nagorno Karabakh
in quello armeno e a consentire ai residenti del Nagorno
Karabakh di votare nelle elezioni armene: in poche
ore si contavano 34 vittime a Baku, mentre aspri scontri infuriavano nel
territorio del Nagorno Karabakh.
Il 15 gennaio 1990 le Autorità
sovietiche decretavano lo stato d’emergenza in Nagorno
Karabakh e in altri settori dei territori armeno e
azero, decidendo di rafforzare le unità speciali già in loco con reparti dell’esercito, della marina e del KGB.
Dopo un lungo periodo di
relativa calma, la situazione nel Nagorno Karabakh precipitava nuovamente all'inizio di settembre del
1991, quando una serie di scontri interetnici provocavano la morte di una
quindicina di persone.
La dissoluzione dell’URSS,
consumatasi nella seconda parte del 1991 dopo il fallito putsch dell'estate, sembrò dapprima favorire il raggiungimento di
un accordo sul Nagorno Karabakh
(fine settembre), con la mediazione dei presidenti delle Repubbliche sovietiche
della Russia e del Kazakhstan, rispettivamente Boris Eltsin e Nazarbaev. Neanche due mesi dopo, tuttavia, l’abbattimento
di un elicottero che sorvolava il Nagorno Karabakh con alte personalità azere a bordo provocava un reinnesco delle tensioni: lo statuto di autonomia del Nagorno Karabakh veniva revocato
dal Parlamento azero. Dal canto loro, le autorità armene del Nagorno Karabakh dichiaravano in
dicembre l’indipendenza, a seguito di un referendum
dall’esito plebiscitario.
Dopo l’abbattimento di un altro
elicottero azero nel gennaio 1992, con la morte di una quarantina di civili, il
31 dello stesso mese un contingente
blindato dell’esercito azero lanciava una massiccia offensiva contro il
territorio del Nagorno Karabakh,
destando subito un vasto allarme a livello internazionale: aspri scontri
seguivano nei giorni successivi, nonostante l'arrivo in loco di una missione dell’allora CSCE (Conferenza sulla
sicurezza e la cooperazione in Europa, oggi OSCE), e nonostante
l'interessamento del segmento militare della neonata Comunità di Stati
indipendenti (CSI) tra le Repubbliche ex sovietiche.
Il 20 febbraio i ministri degli esteri dell’Azerbaigian e dell’Armenia
firmavano a Mosca una dichiarazione congiunta in quattro punti, sulla quale
avevano concordato con la mediazione dell'omologo russo Kozirev:
la dichiarazione, in particolare, richiedeva un immediato cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh, lo sgombero dei
blocchi stradali e il ripristino dei mezzi di comunicazione, sì da consentire
l'afflusso di aiuti umanitari quanto mai urgenti. La dichiarazione congiunta
veniva tuttavia ignorata, come si incaricavano di mostrare gli eventi dei
giorni successivi, con un rinnovato
infuriare dei combattimenti fra le truppe azere e gli armeni
del Nagorno Karabakh. Crescevano inoltre le preoccupazioni di un
coinvolgimento regionale nel conflitto, a partire dalla presenza di truppe
della Comunità di Stati indipendenti, talvolta implicate nei combattimenti con
l'una o l'altra parte. L'Armenia, poi, guardava con preoccupazione a un
eventuale intervento della Turchia in caso di conflitto vero e proprio con
l’Azerbaigian: Ankara aveva infatti manifestato, a partire dalla dissoluzione
dell'Unione Sovietica, forte attenzione verso le Repubbliche islamiche
precedentemente incluse nell'URSS. Anche il ministro degli esteri iraniano Velayati si attivava per cercare di porre un argine al
divampare delle violenze. Frattanto
l’Armenia stabiliva, tramite il richiamo degli appartenenti armeni ai vari contingenti militari ex sovietici, di dar vita a un proprio esercito
nazionale, e l’Azerbaigian si mostrava prossimo a una analoga determinazione.
Mentre la crisi si aggravava ulteriormente,
veniva impartito ai contingenti CSI
nella regione l’ordine di ritirarsi, proprio per evitare il coinvolgimento
del conflitto, il quale intanto provocava immediati riflessi politici interni in Azerbaigian, ove, dopo un assedio
durato diverse ore al palazzo del Parlamento di Baku, i manifestanti ottenevano
il 6 marzo le dimissioni del capo dello
Stato Mutalibov, dopo le quali lo schieramento
politico azero si mostrava diviso tra chi voleva proseguire il conflitto
del Nagorno Karabakh fino
alla liquidazione delle istanze indipendentistiche e chi invece, in modo più
flessibile, perseguiva una soluzione politica con l'eventuale intervento dei
caschi blu delle Nazioni Unite.
In effetti vari tentativi di
mediazione venivano posti in essere da una missione della CSCE con l'accordo
della NATO, nonché dalle Nazioni Unite tramite l’inviato speciale Vance, ma tutto ciò non approdava ad alcun risultato di
rilievo. In agosto, tuttavia, grazie
alla mediazione del presidente del Kazakhstan Nazarbaev,
l’Azerbaijan e l'Armenia accettavano una tregua in
relazione alla questione del Nagorno Karabakh.
Per quanto riguarda invece la
CSCE, il ruolo di essa nella questione del Nagorno Karabakh si mostrava quanto mai sterile anche ai primi di
dicembre del 1993, in occasione del vertice di Roma dei 52 ministri degli
esteri. Più utile risultava però un anno dopo il vertice CSCE di Budapest, che stabiliva l’nvio nella regione di una forza multinazionale di
circa tremila uomini – venivano in questa occasione superate le
tradizionali resistenze della Russia alla presenza di forze di pace negli Stati
ad essa limitrofi.
Dopo la stabilizzazione conseguita alla fine del 1994 – a seguito
della quale tuttavia non venne firmato alcun accordo di pace in senso pieno, e
il Nagorno Karabakh
scivolava progressivamente sotto il controllo di fatto dell’Armenia - la
questione del Nagorno Karabakh
conosceva un periodo di assestamento, che nel medio termine continuava tuttavia
a provocare effetti politici, come quando il 4 febbraio 1998 il presidente
dell'Armenia Petrosian si rimetteva, essendo rimasto
isolato per aver accettato nella sostanza alcune proposte di pace avanzate
dall’OSCE (Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa,
subentrata nel 1995 alla CSCE). Le dimissioni di Petrosian,
oltre ad aprire un temporaneo vuoto di potere a Erevan, mostravano la virulenza
delle correnti più accesamente
nazionaliste in Armenia, guidate dal Primo Ministro Kociarian,
già leader proprio del Nagorno Karabakh. La deriva nazionalista raggiungeva il
culmine il 27 ottobre 1999, quando un commando
di estremisti penetrava nel Parlamento di Erevan e uccideva il primo ministro Sarkisian e altri quattro esponenti politici.
Dopo nuova serie di violenze di minore
entità in Nagorno Karabakh
all'inizio di marzo del 2008, molte
speranze aveva destato per la soluzione della tormentata questione il riavvicinamento diplomatico che sembrava
concretizzarsi nell'aprile 2009 tra l'Armenia e la Turchia, le cui
relazioni erano interrotte ormai da 16 anni. Alla fine dello stesso anno veniva
firmato un accordo che pareva di portata storica fra Ankara e Erevan (Protocolli di Zurigo), ma sulla sua
attuazione ben presto sono tornate a
pesare le storiche ipoteche dell'affinità etnica e linguistica della
Turchia con l’Azerbaigian e della questione sempre viva del mancato
riconoscimento da parte di Ankara del genocidio degli armeni
perpetrato nel 1915. Inoltre, il recente boom
energetico in Azerbaigian rendeva assai più difficile per la Turchia un allentamento
dei legami con Baku. Pertanto, l'accordo
turco-armeno del 2009 è rimasto privo di ratifica da parte dei contraenti.
Il 2010 vedeva solamente
sporadici scontri alla frontiera del Nagorno Karabakh, con alcune vittime tra i militari dei rispettivi
schieramenti. Nel 2011, tuttavia, la
questione del Nagorno Karabakh
riassumeva una sua centralità, a partire da un’iniziativa dell’Iran, che si dimostrava particolarmente propenso
a un miglioramento dei rapporti con Erevan: la guida politica di Teheran,
infatti, non ha mai desiderato lo schieramento di forze internazionali di
monitoraggio ai propri confini, segnatamente quelli settentrionali interessati
da rivendicazioni autonomistiche, ma tale eventualità potrebbe realizzarsi
qualora l’Armenia decidesse di alleggerire il territorio conteso di alcune
parti annesse durante il conflitto del 1992-1994, e restituirle
all’Azerbaigian.
Neanche la mediazione della Russia, concretizzatasi il 24 giugno nella
città di Kazan, dove si e svolto un vertice a tre fra i presidenti armeno e
azero e l'allora presidente russo Medvedev,
raggiungeva lo scopo di un progresso dei negoziati – all’incontro le parti
erano giunte dopo forti sollecitazioni
provenute già nel mese di maggio dal Vertice G8 di Deauville,
e soprattutto dai leader francese,
russo e statunitense, ovvero dei tre paesi che guidano il Gruppo di Minsk
dell’OSCE, dedicato alla questione del Nagorno Karabakh. Ancora una volta la grave contraddizione tra il principio di autodeterminazione cui
fanno riferimento gli armeni del Nagorno
Karabakh e quello del rispetto dell'integrità
territoriale, al quale si ispira la condotta dell’Azerbaigian, si
dimostrava insormontabile, tanto più che questo avveniva in un contesto di
corsa agli armamenti dei due paesi e di continue seppur ridotte violazioni del
cessate il fuoco alle frontiere del territorio conteso.
La Russia non si è però arresa
all’insuccesso di Kazan, e in agosto il presidente Medvedev
ha nuovamente incontrato i presidenti di Armenia e Azerbaigian in margine al
vertice in Kazakhstan dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva
(CSTO). L’attivismo diplomatico di Mosca ha fatto temere in Armenia un
riavvicinamento russo all’Azerbaigian, e, per tramite di questo, alla Turchia,
che priverebbe gli armeni almeno in parte del
sostegno fin qui ricevuto in ragione delle forti posizioni economiche russe in
Armenia.
Dopo ulteriori scontri e vittime
militari alla frontiera del Nagorno Karabakh all'inizio di ottobre, i tre co-presidenti del
Gruppo di Minsk dell’OSCE si sono recati verso la fine del mese nella regione,
annunciando un accordo provvisorio tra
le parti per investigare sulle violazioni del cessate il fuoco sia sulla di
frontiera tra Nagorno Karabakh
e Azerbaigian che su quella tra Armenia e Azerbaigian. Fortemente simbolico è
stato, durante la visita, l'attraversamento a piedi della linea di contatto a
est del Karabakh.
Nella seconda metà di novembre nuovi combattimenti hanno visto la
morte di soldati armeni e azeri: una ulteriore visita dei copresidenti del Gruppo di Minsk, nel
corso della quale si è proceduto stavolta all'attraversamento a piedi del
confine settentrionale tra Armenia e
Azerbaigian, si è conclusa con una dichiarazione congiunta che ha ribadito la
necessità di attuare il meccanismo di investigazione proposto il mese
precedente in ordine agli incidenti di frontiera. Negli stessi giorni la
capitale armena Erevan ospitava una conferenza
interreligiosa a livello della CSI, cui partecipava anche il capo
spirituale (Gran Muftì) musulmano del Caucaso, a margine della quale questi,
unitamente al Patriarca russo e al “Catholicos” armeno, ha firmato un appello per il ritiro dei cecchini dalla linea di contatto, onde
evitare ulteriori perdite di vite umane.
Nel 2012, nella prosecuzione dello stallo negoziale e diplomatico
in ordine alla questione del Nagorno Karabakh, un evento di rilievo è stato rappresentato dalle elezioni presidenziali del 19 luglio nella contestata regione, definite una
provocazione dall’Azerbaigian, mentre l'Unione europea ha tenuto a precisare di
non riconoscere il contesto istituzionale della consultazione elettorale, che
non recherà pregiudizio alla determinazione del futuro status del Nagorno Karabakh.
In ogni modo la consultazione, alla quale vi è stata una buona affluenza del
73% degli aventi diritto - comunque inferiore alle aspettative e alle
precedenti elezioni del 2007 - ha visto la riconferma
del presidente uscente Baco Sahakian, sukka cui persona vi è stata la convergenza di due terzi
dei voti, mentre un terzo dei consensi è andato all'antagonista Vitali Balasanian, un generale distintosi nel conflitto del
1992-1994. La consultazione elettorale è stata certificata come regolare da una
novantina di osservatori internazionali.
La situazione che si presenta al
riconfermato presidente è caratterizzata da alcune incognite immediate,
soprattutto in rapporto all'atteggiamento dell’Azerbaigian, paese anch’esso
coinvolto dalla crisi economica internazionale, che nelle incertezze
finanziarie mette a rischio anche l'elevato livello di profitti conseguiti da
Baku negli ultimi anni grazie alle ingenti risorse di idrocarburi, che avevano
tra l'altro permesso grandi investimenti nel settore militare. A fronte di un atteggiamento dell'Armenia
favorevole allo status quo, e perciò
dai toni più moderati, le autorità azere sembrano ultimamente più propense ad
alimentare di nuovo prospettive di una revanche nazionalista per il recupero del Nagorno Karabakh.
Lo stallo diplomatico in teoria
non dovrebbe esistere grazie ai principi
definiti a Madrid nel 2009, in base ai quali i territori limitrofi al Nagorno Karabakh conquistati
nella guerra del 1992-1994 dovrebbero tornare all’Azerbaigian, mentre il Nagorno Karabakh in senso stretto
si vedrebbe accordare uno statuto provvisorio e un corridoio di collegamento
con l'Armenia, nelle more di un referendum
per la libera espressione della volontà degli abitanti - il tutto nel contesto
del ritorno dei rifugiati nei luoghi originari di residenza e di una missione
internazionale a garanzia della sicurezza delle operazioni. Il contrasto si è tuttavia spostato sulla
tempistica dell'applicazione di tali principi, che per l'Armenia andrebbero
implementati simultaneamente, mentre per Baku lo status finale del Nagorno Karabakh dovrebbe scaturire solo nell'ultima fase del percorso.
Va comunque tenuta presente la pesante
ipoteca russa sulla questione, poiché l'instabilità permanente nella
regione consente a Mosca di mantenere un'importante voce in capitolo in un'area
essenziale per le risorse petrolifere e i corridoi di transito. Del tutto
impensabile sarebbe una prevalenza netta dell’Azerbaigian senza conquistare
decisivamente l’appoggio russo – sinora ben chiaro nei confronti di Erevan -,
che viene però sapientemente centellinato. Incombe poi sempre il fattore del richiamo nazionalistico,
che costituisce un potente veicolo di consenso elettorale da entrambe le parti,
contribuendo a lasciare sempre sullo sfondo le ipotesi più moderate di accordo
attraverso reciproche rinunce. Infine, per ciò che concerne il ruolo dell’Unione europea nella regione,
qeusto continua a dimostrarsi poco significativo,
nonostante il rilancio della seconda parte del 2011, con la nomina di un
Rappresentante speciale per il Caucaso meridionale, nella persona di Philippe Lefort.